venerdì 18 febbraio 2011

Amarsi per amare

La mitologia greca ha consegnato alla storia la bellissima storia di Narciso, il quale, senza voler entrare in ulteriori dettagli, si innamora della sua immagine fino ad uccidersi per essa.
Da allora il narcisismo è diventato sinonimo di egoismo, superficialità insomma di una certa fatuità nel comportamento.
Al narcisismo viene associato spesso anche il comportamento di persone che hanno una cura maggiore della propria immagine e del proprio corpo.
Nella cultura occidentale, da sempre abituata al dualismo corpo-anima dai tempi di Platone e Aristotele, passando per Cartesio fino ad oggi (corpo-mente), una persona che cura il proprio corpo è da sempre vista con diffidenza, perché sembra si occupi delle cose futili.
In questo anche la tradizione cristiana ha dato un suo contributo, basti pensare ai cilici e la mortificazione del corpo quale entità di corruzione dell'anima, recependo in questo la tradizione filosofica platonica più che aristotelica.
Dato che oggi l'attenzione al corpo è diventata più importante, c'è da chiedersi se preoccuparsi o meno di un elemento culturale del genere oppure se in passato si è sbagliato qualcosa.
Ci chiediamo insomma se questa visione dicotomica della persona è corretta o meno.
Ritorniamo all'antichità. Non tutti la pensavano come i greci.
Gli antichi romani, come al solito in maniera pragmatica, affermavano il famosissimo motto mens sana in corpore sano, non perché per loro fosse assente il dualismo mente-corpo ma perché avevano scoperto l'importanza e l'interdipendenza tra queste due entità forzatamete "spezzate" da Platone.
La stessa concezione ebraica della persona non comporta la netta separazione corpo-anima presente nella filosofia greca, per gli ebrei lo spirito vivente è tutt'uno con il corpo, quindi non una entità divisibile dallo stesso. Si parla sì, di "soffio divino" di vita per i corpi, ma non c'è la contrapposizione platonica che può portare ad un disprezzo del proprio corpo.
Oggi le ultime frontiere della scienza presentano la mente e il corpo come un unicum originale e irripetibile: insomma non entità separate; si sta cominciando a smontare definitivamente la dualità platonica anima-corpo.
La persona è dunque da vedere come una unità mente-corpo (per la scienza) o anche anima-corpo (per i fedeli). Chi disprezza l'uno a scapito dell'altro commette un errore perché non sono cose disgiunte.
E' corretto? Ed è vero anche per la religione? E pur volendo credere, come noi cristiani, che esiste l'anima, quest'ultima non è in contrapposizione con il corpo? I cilici sono validi o no?
Andiamo a leggere il Vangelo.
Gesù in due occasioni diverse afferma cose fondamentali.
Quando afferma  che «non è ciò che entra nella bocca che contamina l'uomo; ma è quel che esce dalla bocca che contamina l'uomo.» (Mt 15,11), Gesù pone un limite netto alle limitazioni e prescrizioni inutili imposte al corpo (limitazioni nel cibo, nella cura dello stesso, penitenze più o meno cruente).
Non è importante che imponiamo qualcosa al nostro corpo se poi il nostro cuore serba pensieri cattivi.
Già da questa affermazione si limita la mentalità che assegna al corpo un potere "diabolico" sull'anima. Il problema non è il corpo ma l'amore o l'odio o peggio l'indifferenza per gli altri.
L'importante è amare, il resto non conta più di questo.
Allo stesso modo quando, sgombrando definitivamente il campo da equivoci, afferma «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,16-19), rivela una verità fondamentale: non bisogna solo amare gli altri ma bisogna amarli come si ama la propria persona.
La propria persona intesa come anima e corpo, nell'ottica della mentalità ebraica, non nell'ottica della filosofia platonica.
E se si disprezza la propria persona? Allora non si possono amare compiutamente gli altri.
Facciamo degli esempi.
Immaginiamo una persona "viziosa" (ubriacone, drogato, ma anche vizi minori: ingordo, ecc.), per lui l'altra persona è importante o perché gli fornisce "materia prima" (per alcool e droga) o perché condivide con lui il suo vizio.
Questo è un genere di affetto egoistico in primis perché finalizzato al suo vizio, in secondo luogo perché non desidera il bene dell'altro ma si desidera anche l'autodistruzione dell'altro pur di giustificare il proprio comportamento. E' un affetto che non costa niente, non costruisce relazioni serie perché non basate sull'incontro e la conoscenza dell'altro e non costruisce nulla.
Quindi l'asservimento del proprio corpo al vizio si esplicita in una incapacità assoluta ad amare gli altri.
Ancora immaginiamo una persona che non cura il proprio corpo pensando solo "all'ascesi". Per questa persona il corpo è solo un imbarazzante fardello da portarsi dietro. Tutto ciò che è corporeo è inutile. Sarà inutile curare i malanni, sarà futile prepararsi per incontrare chi si ama, sarà vanità curare l'aspetto.
Una persona del genere cercherà di imporre una simile condizione anche a chi vivrà al suo fianco. Peccato che limitando la cura e l'affetto al proprio corpo si limita notevolmente la capacità di comunicare con gli altri. Noi diciamo "ti amo" con il nostro corpo prima ancora che con la nostra parola. Chi limita forzatamente l'espressione del proprio corpo non potrà mai comunicare l'amore che può provare per gli altri.
Anche in questo caso, si presenta una forte incapacità di amare.
Viceversa chi si cura esclusivamente del corpo senza progredire mentalmente (studiando, cercando di incontrare l'altro nei propri affetti ed esigenze, spritualmente, ecc.) comunque non si ama, perché non ama l'unicità mente-corpo(-anima) della propria persona. Anche in questo caso la persona si concentrerà molto sull'attrazione verso gli altri o su ciò che può ricavare dalla propria bellezza piuttosto che cercare di amare. Insomma chi cura esclusivamente il proprio corpo non si ama appieno perchè comunque non ama l'interezza della propria persona. Anche questa categoria di persone ricade nella dualità platonica ma in senso inverso.
Amare la propria persona significa quindi amare nella pienezza la propria persona fatta di mente e corpo (o anche anima e corpo per i credenti). Significa anche capire il mondo e sviluppare le proprie capacità cerebrali allo stesso modo con il quale si cura il corpo. E qui vengono in mente le parole di San Paolo «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?» (1Cor 6,19). Il corpo è un tempio da amare, curare e rispettare, non da distruggere e disprezzare, ed è tale perché è presente in esso lo Spirito di Dio (anche qui torniamo alla visione ebraica).
Come si vede l'amore verso gli altri è un fatto complesso ma non può esplicarsi senza quella personalità matura di una persona che si ama nella completezza della propria esistenza ed è capace di trasferire il proprio amore a chi gli sta accanto.

sabato 12 febbraio 2011

Calcoliamo il rischio degli impianti nucleari

Il rischio, tecnicamente parlando, è il prodotto tra la probabilità di accadimento di un evento e la pericolosità dello stesso. Tale definizione, introdotta da Rasmussen (1980) e ripresa da altri, è oramai universalmente accettata dalla comunità scientifica.
Si ha dunque:

R = f x I

dove
f è la frequenza di accadimento dell'incidente
I è la magnitudo delle conseguenza dell'evento, ovvero il danno dovuto al verificarsi di un incidente.
A volte, la frequenza è sostituita dalla probabilità, ma, al di la di cambiare scala del rischio non accade molto.

Per avere un idea di come calcolare il rischio consideriamo banalmente il caso del trasporto aereo per un anno.

Nel 2009, ad esempio, sono capitati 8 incidenti aerei, con 588 vittime a fronte di un traffico aereo che ha trasportato quasi 808 milioni di persone.
Utilizziamo la definizione di rischio con la frequenza (f) e poi estrapoliamo dei dati per calcolare il coefficiente di rischio con il valore legato alla probabilità.
Nel primo caso (frequenza) si ha:

R = 8 x 588 / 807605000 = 5,82 x 10e-6 ,

ovvero, mettendo piede su un aereo, si ha un rischio di incidente mortale pari a 1 su quasi 6 milioni di passeggeri trasportati (0,0000167%).
Nel secondo caso (impostando il calcolo sul numero di aerei coinvolti in incidenti), stimiamo un numero di voli annui pari a int(808mil/150) = 5384033, calcoliamo il rischio:

R = (8 / 5384033) x 588 = 0,000873

Come si vede la scala cambia. Prendendo un aereo ho un rischio di incidente mortale pari a 1 su quasi 9000 voli effettuati (0,011%).

Adesso può essere interessante calcolare il rischio di incidente atomico mortale per un abitante prossimo ad una centrale.
I dati storici di cui disponiamo sono:

N. incidenti storici: 11.

N. di centrali (tra attive e spente): 884 (questo dato ci consente di utilizzare la formula legata alla probabilità).

N. di morti a seguito di incidente nucleare: 4110.
Quest'ultimo dato è però incerto ed approssimato di certo per difetto, infatti il problema è sostanzialmente la stima degli effetti sulla popolazione.
In molti incidenti le autorità locali hanno escluso effetti sulle persone, cosa poco plausibile.
Ad esempio all'epoca dell'incidente di Three Mile Island secondo le autorità locali e nazionali non vi furono effetti sulla popolazione.
Solo ora, dopo oltre 25 anni, qualche agenzia governativa ha tirato fuori studi che evidenziano un aumento certo di tumori e leucemie vicino alla centrale, ma la stima dei morti sarà impossibile farla ora, servirà almeno qualche secolo.
In un altro grave incidente in Brasile (Goiania, 1978), le autorità hanno sempre dichiarato i 4 morti diretti, escludendo altri effetti, anche questo è un dato poco affidabile.
Una stima più attendibile è invece quella del rapporto congiunto EU, ONU, OMS, ecc. che, nel dopo Chernobyl, fissa a circa 4000 decessi per tumori e leucemie l'effetto di quel disastro nucleare.
Volendo comunque attenersi ai dati ufficiali, calcoliamo il rischio associato a incidenti nucleari, quindi utilizziamo il valore totale fornito dalle autorità (4110).

Con 11 incidenti in 54 anni si ha una probabilità di 0,2037 incidenti annui.

Inoltre su 884 centrali si ha una probabilità di incidente annua ad impianto paria a p = 0,2037 / 884 = 0,00023
Qui dobbiamo utilizzare il numero delle vittime perché non abbiamo raffronto diretto sulla popolazione esposta, ovvero:

R = p x I = 0,00023 x 4110 = 0,947

Non c'è molto altro da dire su questo numero.

Risultato che non deve sorprendere, infatti il vero problema della sicurezza degli impianti nucleari è proprio il numero enorme di persone esposte.

Proprio per questo la comunità europea, nel tentativo di limitare i danni di potenziali incidenti, ha imposto norme molto restrittive sulle procedure di emergenza in caso di incidente nucleare (ad es.: G.U.U.E. L314 del 30.11.2005).

Per completezza vediamo qual è il rapporto tra rischio nucleare e rischio di incidente aereo:
Rischio disastro nucleare / incidente aereo = 0,947 / 0,000874 = 1084 : 1.

Da qualunque punto di vista si voglia vederlo è un rischio tutt'altro che basso.

venerdì 4 febbraio 2011

Prenditi il tuo tempo!



Quando torni a casa,
se tuo figlio ti abbraccia,
non evitarlo,
non metterti a fare
altre faccende inutili,

non pensare al lavoro,

non angosciarti per il
tempo perso.

Ma coccola il tuo bimbo,
perché ti senta vicino,

spegni il cellulare,
perché nessuno disturbi
le vostre coccole,

ignora il tuo capo:
il lavoro non entri
nella vostra intimità,

stai tutto il tempo che serve,
così saprà
che può sempre contare su di te.

L'amore richiede pazienza,
ma bisogna anche saperlo
comunicare.

Se guardi l'orologio
fallo quando stai
ancora lontano da casa,
perché non vedi l'ora
di tornare.

Quello sì che è
tempo perso.